una memoria

Intorno al 1939 Cosimo cadde dall’ulivo mentre col fratello Felice, di un anno più vecchio, giocava all’acrobata. Aveva sei anni e ancora non sapeva che la banale frattura, che si era procurato al femore della gamba destra, lo avrebbe fatto soffrire per il resto della vita. Passò la guerra coi suoi fuochi d’artificio sul porto di Taranto guardati dall’alto del trullo di contrada giuvannieddh; altre tre sorelle ed un fratello erano arrivati ad aumentare la famiglia, altri trulli l’avevano ospitato nei lunghi mesi dopo l’inverno. Contrada cutugn e contrada piaton lo avevano visto giocare con quel nipotino Giacomo figlio del suo compagno di giochi di una volta, il fratello Felice. Periodicamente il dolore alla coscia della gamba destra piagata dalla ferita mai richiusa di quella lontana frattura lo prendeva e ne spegneva la gioia di vivere. Passata la crisi il suo carattere solare riprendeva il sopravvento e Giacomo tornava a sorridere e pendere dalle sue labbra. I suoi mitici racconti, all’ombra dell’albero di mandorlo che, l’edera aveva trasformato in una freschissima oasi d’ombra, durante gli assolati mesi estivi, incantavono Giacomo che l’aiutava ad allevare i coniglietti bianchi e neri che ghiotti dell’erba verde muovevano incessantemente i loro teneri musetti. La caccia (1) ai cardellini con lo specchietto d’acqua era il gioco più emozionante. Durante l’inverno c’erano la radio a transistor e il piccolo grammofono su cui suonare i dischi di twist che il fratello Francesco aveva portato con sé tornando, per qualche giorno di ferie, dalla Germania dove aveva trovato lavoro come tanti ragazzi della sua generazione. E le passeggiate abbascia a chiazza cupert fino al pescivendolo per comprare le cozze del mar piccolo, aprirle col coltellino, condirle con le gocce del limone appena comprato e mangiarle crude di nascosto della mamma: “Cosimo mi raccomando non mangiare le cozze crude e non darle a u piccinn, fanno male alla pancia”. Venne febbraio e si portò via Cosimo. Fu il primo dolore di Giacomo che non riusciva a capire perché, quella notte, tutti stavano in piedi, non dormivano, mentre solo nel letto, per lui estraneo, della zia Addolorata dormiva a tratti; svegliandosi udiva i pianti sommessi dei parenti. Si sentì stranamente adulto e senza lacrime quando seguì il funerale e le note della banda che accompagnava il feretro gli sembravano inutili ed estranee. Non avevano l’allegria di quei 45 giri suonati dal grammofono dello zio Micchio. Il giorno dopo volle essere li, in quella spoglia camera del cimitero, insieme a sua madre; se non l’avessero trattenuto avrebbe voluto pulire il naso allo zio, s’era raffreddato durante la notte ed aveva il moccio. Rimase sbalordito quando chiusero la cassa di zinco a martellate, i chiodi si conficcavano nel legno della cassa e gli portavano via il compagno di tanti giochi in campagna, fu allora che pianse e piange ancora ora che scrive queste parole conservate così a lungo nella memoria.

(1) Scavavamo nella terra una buca grande abbastanza da contenere una buatta usata, riempita fino all’orlo di acqua del pozzo. Intorno allo specchietto d’acqua un semicerchio di terra battuta privo di ostacoli: via pietre, rametti secchi, gusci di lumache. Zi’micchio m’insegnava a tenere in bilico, su uno zippo di mandorlo da lui predisposto, una chianca simile a quelle usate per costruire i coni dei trulli. La chianca incombeva sullo specchio d’acqua; una cordicella veniva assicurata al rametto e nascosta a filo di terra nel tratto ripulito, con l’altro capo in mano mia, andavamo eccitati a nasconderci dietro un riparo di sciaje già pronto all’ombra di un vicino fico. – Non fiatare – diceva Zi’micchio, – Non muoverti, altrimenti gli uccellini non si avvicinano. – Sì!, perché era proprio qualche passero o meglio un cardellino di passaggio che noi aspettavamo si avvicinasse attirato dallo splendore dell’acqua al sole cocente di luglio. Le speranze di ‘ngappare qualche preda si affievolivano: il vento non sembrava favorirci, quando ecco apparire un’ombra sull’orlo della buatta. Sembrava proprio che un cardellino con le piume gialle e rosse sotto il becco fosse venuto a farsi prendere. Il cuore mi batteva in gola, avevo cinque o sei anni e far male ad un esserino mi spaventava e attirava allo stesso tempo, al pensiero di ciò che stava per capitargli mi faceva pena l’uccelletto che beveva spensierato calando il becco in acqua e ingoiando ogni goccia con un rapido gesto del capo all’indietro. Lo volevo però a cantare per me nella gabbietta, già pronta, con la porta aperta, nelle mani sicure dello zio che m’incoraggiava sibilandomi nell’orecchio: – Tira!…Già, Tira!… – Riflettevo, immobile, ancora un attimo in preda all’ansia, finalmente deciso tiravo il cordino e via di corsa a sollevare la chianca sperando che il cardellino fosse caduto in acqua senza essere rimasto schiacciato. Trattenendo il fiato, ecco, sollevavo la pietra e raccoglievo l’uccellino, pulsante di paura nella mia mano tremante, ancora stordito del colpo improvviso. – Che peccato, non è un cardellino, – Dicevo: – E’ solo un passerotto. – Zi’micchio contento dell’esito della caccia mi suggeriva: – Non importa, canterà anche lui il prossimo inverno e le giornata grigie saranno più allegre. Con la sua stampella mi indicava la porticina aperta della gabbia e mi diceva: – Non farlo volare via come il cardellino di ieri, mi raccomando!, Infilalo dentro con calma e mollalo subito, chiudi, vedrai: non scappa più.

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