il vento del cambiamento

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Un vento dimenticato spira su questa Torino umida di fine primavera che si prepara al ballottaggio. Forse non gonfierà le vele di una nuova maggioranza. Ma intanto sbatte, fa rumore. Soffia dalle periferie alle università, dovunque qualcuno si senta escluso dal sistema di potere che da un quarto di secolo ruota intorno al centrosinistra. Prima che di un cambiamento, indica la voglia di un ricambio.  Per chi lo osserva dai vetri, quello che governa Torino è un sinedrio chiuso che ti ammette al suo interno solo per cooptazione. Le stesse persone che da decenni si incontrano alle stesse cene, si scambiano gli stessi incarichi e partecipano allo stesso banchetto di soldi pubblici che anche gli esclusi hanno contribuito con le loro tasse ad allestire. A chi non ne fa parte interessa poco che questa aristocrazia, riunita oggi intorno a Fassino, sia la migliore delle grandi città italiane e probabilmente più preparata di quella che circonda Chiara Appendino. Per gli esclusi il desiderio di aprire le finestre è così impellente che prevale persino sul rischio di fare entrare aria cattiva.  Ho letto su Facebook il post di un militante liberale, uno di quei torinesi di centrodestra che hanno votato Berlusconi per anni senza mai amarlo. Tratteggia il futuro a tinte fosche che attende Torino nel caso di una conquista grillina, profetizzando anni di Terrore giacobino a base di linciaggi e politiche afflittive (No Tav, No Cittadella della Salute, No tutto). Ma, dopo avere descritto la vittoria dei Cinquestelle come una sciagura, annuncia a sorpresa che voterà per loro. Perché, scrive, solo da una fase distruttiva potrà sorgere una classe dirigente nuova, finalmente basata sulla competenza invece che sulla vicinanza. Un’utopia in un Paese come l’Italia, dove nel campo delle nomine pubbliche l’amicizia non è considerata un limite, ma un vantaggio. Eppure ci sono dei momenti in cui le utopie si mescolano alle invidie, le invidie alle rabbie, e insieme sollevano un vento che va a infrangersi contro il primo albero lungo il cammino.  Piero Fassino è un albero esile, ma ben radicato. Persino i suoi rivali, lontano dai microfoni, ne riconoscono le qualità. Il vento che rischia di travolgerlo o almeno di scuoterlo non prende tanto di mira lui, quanto l’aristocrazia del potere rosé di cui il sindaco è la figura di riferimento. Gli osservatori neutrali sostengono che la squadra di assessori dei Cinquestelle non valga quella che ha governato Torino negli ultimi decenni. Ma per chi sta dentro quel vento, l’incompetenza e persino l’incapacità sono valori positivi. E Chiara Appendino è presenza garbata, abbastanza abile da non ostentare la giovinezza in una città di anziani, mascherandola dietro pettinature e atteggiamenti rassicuranti da «madamin».  Di solito ai ballottaggi si vota il male minore. Ma mentre in pochi andranno a votare Fassino per paura di una vittoria di Appendino, più di qualcuno potrebbe votare Appendino per la gioia di vedere perdere Fassino (e Renzino). Non è detto che succeda. Ma, per la prima volta dopo un quarto di secolo, ciò che a Roma sembra molto probabile a Torino è diventato possibile. Sarà l’effetto del vento. Massimo Gramellini – La Stampa

Lunedì prossimo Torino avrà un nuovo sindaco e non sarà Fassino Piero, sindaco uscente, colpevole di essere brutto come la fame, scontroso come un orso marsicano e espressivo come un tonno durante la mattanza. Altro difetto di Piero: è politicamente vecchio, da troppo tempo nelle stanze dei bottoni. E poi a Torino governano più o […]

 

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