“Il bardo dei poveri cristi” così defini Enzo Jannacci Moni Ovadia quando Enzo morì dell’aprile del 2013.
” Il nostro punto d’incontro è Milano. Enzo Jannacci raccontava e cantava la Milano che io ho vissuto. Ma la stessa orgogliosa città, albergava nei suoi interstizi e nei suoi sottofondi, la povera gente, i disperati, i fuori di testa, gli esclusi, i sognatori senza voce, i terroni, gli abbandonati dall’amore e dalla vita, le puttane navi scuola da strada e da cinema. Di tutti questi poveri cristi, lui è stato il cantore assoluto.
Quando Jannacci fece la sua comparsa sulle scene della canzone e del cabaret, Milano era una metropoli industriale in pieno ed impetuoso sviluppo, dava lavoro, chiamava gli immigrati dalle periferie meridionali orientali ed isolane dello Stivale. Jannacci ne ha colto, incarnato e raccontato la storia, le emozioni, i sentimenti e la vita vera. Di quel popolo ha interpretato la malinconica, maleducata e balorda grazia, ha rivelato che la poesia dei luoghi, fiorisce nei gesti impropri e sgangherati degli ultimi fra gli ultimi, nella loro grandiosa lingua gaglioffa e sfacciata.
È stato in assoluto, a mio parere, il più originale poeta della canzone che abbiamo avuto il privilegio di ascoltare e insieme un artista inarrivabile nel suo essere stralunato e surreale.
Enzo non era nato povero cristo, aveva fatto ottimi studi in ogni senso, ma quella condizione l’aveva incorporata con arte alchemica. L’aveva assunta nel volto fisso alla Buster Keaton, nei gesti liricamente scomposti, nel modo di suonare la chitarra tenuta bloccata sotto il mento, nella fibra e nel canto della lingua vernacola di cui esprimeva l’anima e di cui aveva trasferito l’umore triste e gagliardo anche nell’italiano. Tutta questa sapienza confluiva nella sua inimitabile voce sguaiata e sul crinale precario della sua intonazione che dava vita ad un capolavoro espressivo e stilistico.”
Enzo Jannacci cantautore, cabarettista e attore ma anche cardiochirurgo, tra i maggiori protagonisti della scena musicale italiana del dopoguerra. Fin dagli anni ‘50, ha lavorato insieme agli amici Dario Fo e Giorgio Gaber, passando dalla canzone dialettale al rock al jazz, fornendo l’ispirazione anche a personaggi come Renato Pozzetto, Diego Abatantuono, Massimo Boldi. Tra i suoi brani più noti: Vengo anch’io. No tu no, El portava i scarp del tennis, Ho visto un re, Quelli che. La vita l’è bela……. Alcune di queste canzoni, diventate oramai dei classici, sono reinterpretate da Moni Ovadia – anch’egli artista versatile e curioso sperimentatore che si è affermato nel teatro musicale dimostrando una sua personale ricerca espressiva – che le propone in un’inedita quanto fascinosa veste.
Scrivo questo post sotto la spinta dei lettori, infatti questo mio precedente post (click) sta avendo fra ieri e oggi un numero considerevole di visite e spero letture, così dice google.