Pierluigi Battista riapre le ferite di un rapporto irrisolto con il padre fascista, e gli concede idealmente l’onore delle armi. Così, riannoda i fili spezzati di una tormentata vicenda familiare e trova un modo adulto di confrontarsi, in un libro indimenticabile, con un pezzo non meno tormentato della nostra storia.
L’annichilimento del mondo del padre, la fine dei «decenni della marginalità voluta come simbolo di fedeltà a se stesso», l’angoscia per «quella desolata cerimonia di addio alle armi» si sommava al senso di colpa che finalmente trovava sfogo, al rimpianto per non aver siglato in vita quella riconciliazione che il re Lear shakespeariano offre alla figlia Cordelia: «Andiamo via. In prigione, noi due, là, soli, e canteremo come uccelli in gabbia. Quando tu a me chiederai la mia benedizione, e io a te, in ginocchio, chiederò il tuo perdono». Ora la riconciliazione tra il figlio ribelle e il padre fascista è finalmente arrivata. Ed è questo il libro di Pierluigi Battista, Mio padre era fascista (Mondadori).
L’autore ieri a Torino, presso il Circolo dei Lettori di Via Bogino, ha presentato il libro che di seguito si descrive con le sue parole: «Quando, dopo la sua morte, ho letto il diario che aveva custodito nel segreto per tutta la vita, mi è parso di avere una percezione più chiara del tormento che ha dilaniato per decenni mio padre fascista, prigioniero a Coltano dopo aver combattuto, ventenne o poco più, dalla parte dei “ragazzi di Salò”. «Ho capito che cosa abbia rappresentato per lui il dolore di essere stato internato in quel campo per i vinti della Rsi vicino alla “gabbia del gorilla” in cui era rinchiuso Ezra Pound. Ho capito quanto abbia sanguinato il suo cuore di sconfitto, di “esule in Patria” nell’Italia in cui era un borghese integrato, maniacalmente attaccato alla civiltà delle buone maniere, ma covando il sentimento di un’apocalisse interiore da cui non si sarebbe mai affrancato. Ho capito quanto sia stata aspra e dolorosa la mia rottura con lui e quanto mi pesi, ancora oggi, il fardello di una riconciliazione mancata. «Allora ho pensato che fosse giunto il momento di raccontare, con i miei occhi e il mio modo di sentire le cose della vita, chi fosse mio padre fascista e cosa pensasse nell’Italia che non credeva più nei miti in cui lui era cresciuto. Che rapporto ricco e difficile avesse instaurato con i suoi figli.
«Mio padre erano due. C’era mio padre integrato. E c’era quello apocalittico. C’era il borghese tranquillo che osservava con orgoglio una sua rigorosa etica del lavoro. E c’era il fascista sconfitto e piagato che rimuginava senza sosta, nel suo foro interiore, risentimento e rabbia. C’era il conservatore e c’era il ribelle. C’era il professionista di successo, l’avvocato stimato nel mondo forense, che esibiva con fierezza la sua casa arredata con gusto tradizionale, la sua famiglia numerosa, i simboli del benessere. E c’era l’uomo intimamente devastato da una storia che lo aveva condannato, tormentato da un dolore indicibile, schiacciato da un’ombra pesante, mangiato dentro da un’ossessione che non lo abbandonava mai. C’era l’italiano solare, socievole, spiritoso, con un senso dell’umorismo che mi piace ricordare ancora arguto e sottile. E c’era un uomo, mio padre, divorato dal suo lato notturno, esacerbato, cupo, talvolta lugubre».
La sofferenza del padre era inasprita dal figlio, che non soltanto aveva scelto la parte opposta, ma rifiutava di ascoltare le sue ragioni, e lo incalzava come se fosse responsabile di tutte le malefatte nell’Italia occupata («sei impazzito, forse? Mi stai accusando pure di aver partecipato alla strage di Sant’Anna di Stazzema?»). La splendida copertina con il Colosseo quadrato all’Eur di Roma evoca i percorsi nella Roma mussoliniana, scanditi dal «guarda!» con cui Vittorio Battista indicava a un ragazzino perplesso i monumenti costruiti e le strade aperte dal Duce, sempre rigorosamente nell’onomastica originale: via dell’Impero, Foro Mussolini; nelle gite fuori porta non si andava a Latina ma a Littoria, a Sabaudia non si ammiravano le dune ma la piazza, a Firenze prima degli Uffizi si visitava la stazione di Piacentini…
Un conflitto che esplode con la morte atroce dei fratelli Mattei, quando Pierluigi torna a casa rauco dal corteo in cui ha urlato «Lollo libero» e Vittorio — «sei proprio un cretino!» — gli mostra le carte del processo, da cui si deduce con chiarezza che Lollo e gli altri «compagni» sono responsabili del rogo di Primavalle; e «i padri della patria» antifascista «non erano turbati da nessuna scossa, da nessun soprassalto emotivo, da nessun senso di sconfinata ingiustizia per la morte atroce di un bambino bruciato vivo, solo perché era figlio di un fascista. Un figlio di fascista anche lui, come me». Ma il tono medio del libro non è affatto triste. E non solo per la ricostruzione della giovinezza dell’autore, da cui scopriamo un Battista «antifascista militante» negli scontri di scuola e di strada; anche se quando finisce nelle mani di «Roccia», temuto picchiatore, «una montagna di muscoli», si salva solo in quanto figlio dell’avvocato che difende gratuitamente i camerati («vedi de ringrazzià tu’ padre»).
Un padre capace di autoironia, che al volante si sorprende a cantare «le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera» o a fare il verso a una celebre scena del film Il federale – «buca», «buca con acqua»… —, che si commuove davanti al Giardino dei Finzi Contini, che rifiuta di fermarsi all’autogrill di Cantagallo perché non hanno servito il suo amico Almirante, che difende gratuitamente pure gli estremisti dell’altra parte chiedendo consulenze linguistiche al figlio — «ma Pigi che diavolo vuol dire “tirare le bocce”?»; «le bocce sono le bottiglie molotov, papà» —, che si diverte a elencare artisti e attori che militarono nella Repubblica sociale (mentre Battista parla di altri scrittori che fecero anche loro i conti con il padre fascista, da Giampiero Mughini a Vincenzo Cerami a Margaret Mazzantini). E alla fine anche chi non ha alcuna accondiscendenza per il fascismo nelle sue varie forme — il regime, Salò, la nostalgia — finisce per provare simpatia per questo padre pieno di humour e di amore frustrato per l’Italia e per i propri figli.
Chi ha la fortuna di conoscere, di persona o attraverso i suoi articoli sul «Corriere», lo spessore culturale e umano di Pierluigi Battista ne ritroverà le radici nella figura del genitore e nell’ambiente familiare, dove si affacciano i fratelli e la madre, innamoratissima del suo uomo fin da quando partì ventenne verso il fronte per restargli accanto a rischio della vita, e dove compaiono anche Silvia, la moglie scomparsa dell’autore, e la loro figlia Marta. Questo però non attenua l’angoscia, anzi rende il lettore ancora più partecipe delle strazianti pagine finali. Vittorio Battista si spegne a 68 anni, poco dopo la morte di Almirante: il suo ultimo riferimento politico, l’uomo che aveva scritto le parole dell’inno del Msi — «siamo nati in un cupo tramonto» — in cui si riconosceva. La sera del funerale, Vittorio diserta la cena dei dirigenti. Chiede al figlio di mangiare una pizza con lui, in silenzio, e ha appena un gesto di disappunto quando Pierluigi fa cadere la brocca dell’acqua. Il padre fascista si spegne serenamente, la famiglia gli si stringe attorno, la barriera ideologica ormai è caduta, ma il figlio ancora non riesce a cavarsi da dentro il dolore.
Il nodo si scioglie cinque anni dopo. Battista segue per «La Stampa» il congresso di Fiuggi, in cui l’Msi abbandona «la casa del padre» per avviarsi a una stagione effimera ma ricca di potere e di ritrovata rispettabilità. La giornata scorre via tra gli appunti, la stesura dell’articolo, la cauta apertura al nuovo corso da parte del «giornale di Bobbio e Galante Garrone», la cena con i colleghi, le celie su «er Pinguino» o «er Pecora», il riposo in albergo. «Non sapevo cosa mi aspettasse oltrepassando quella porta: il luogo imprevisto dove stava per cominciare la notte dello strazio e della disperazione, la notte in cui la calma delle ore precedenti andò in fumo e mi misi mio malgrado a battagliare senza tregua con il fantasma di mio padre fascista». Febbre altissima, brividi sotto il piumone, vomito, panico. «Un pianto interminabile, ore e ore senza pace, sgomento, esterrefatto per quel precipitare in un gorgo per me ignoto». E il desiderio di sentire la voce della madre, «per dirle tra i singhiozzi irrefrenabili quanto mi sentissi solo come mai nella mia vita».
Non esistono i padri “fascisti”, esistono i padri e basta. Lo ha scritto Giampiero Mughini (*) a proposito del libro appena uscito e già così centrale nel dibattito sulle memorie, storiche e familiari. Ed è sicuramente vero, ciò che dice Mughini, ma è anche vero che certi padri meritano un ritratto – sia pur postumo – che ne riabiliti agli occhi degli italiani la generosità d’animo, l’onestà intellettuale e l’amore per il proprio Paese. Perché il padre di Battista era un “fascistone” e sui fascistoni i pregiudizi hanno pesato, e molto. E dunque lo sguardo dolente e affettuoso (e non privo di rimorso) di un figlio “traditore”. Il ritratto è venuto così bene che questo libro può essere letto, come accadde per quello di Giampaolo Pansa, Il sangue dei vinti, come un passaggio culturale necessario nella storia del costume: il libro di Pansa tolse per sempre l’aureola ai partigiani, questo rende giustizia a quelli che votavano Msi.
(*) Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia
Caro Dago, sono purtroppo più vecchio di oltre dieci anni di Pigi Battista. E dunque la storia straziante che lui racconta in questo suo ultimo libro (“Mio padre era fascista”, Mondadori), la storia del rapporto lungamente conflittuale tra un figlio zeppo dei “sinistrismi” degli anni Settanta (Pigi è nato nel 1955) e un padre (nato nel 1922) che era andato volontario nella Rsi e che fascista era rimasto per tutti gli anni del secondo dopoguerra sino alla sua morte, quella storia l’avevo vissuta a modo mio una decina d’anni prima.
Anche mio padre (nato nel 1899, toscano), era stato un fascista della prima ora. Nella Catania dove lui aveva conosciuto mia madre e dove io sono nato, nelle gerarchie fasciste papà era secondo solo al podestà. Quando a Firenze – dove ci eravamo trasferiti – arrivarono gli Alleati e i partigiani, mio padre rimase a lungo nascosto. Tornati a Catania, per tutta la vita lui tenne dietro il suo tavolo di lavoro una foto di Benito Mussolini.
Quando all’alba dei Sessanta mi inzuppai a mia volta di “sinistrismi” più o meno squinternati, lui mai mi rivolse una parola di critica o di sconcerto. Quando la rivista alla quale ho dedicato dieci anni della mia giovinezza, “Giovane critica”, non aveva di che pagare la tipografia, lui ne prese l’amministrazione e ne firmò i miei pagamenti. Ci misi meno tempo di quanto abbia fatto Pigi a considerare papà “mio padre” e basta, senza più altri aggettivi e connotazioni.
Che lui non avesse tre narici (da come l’antifascismo di maniera descriveva i fascisti) e che il suo stile di vita quotidiana fosse ai miei occhi quanto di più elegante, ci misi niente ad accorgermene. E del resto di tempo io e lui non ne avevamo molto a disposizione: è morto i primi giorni di febbraio del 1973. Quegli ultimi anni li ho passati ad adorarlo, adorarlo punto e basta. Che avesse indossato “la camicia nera”, me ne strafottevo. O meglio era tutt’altro discorso.
Nei secondi anni Settanta ho conosciuto il poco più che ventenne (e precocissimo) Pigi. Sapevo di quel suo padre un tantino ingombrante. E vedevo che tra figlio (di sinistra) e padre (almirantiano al cento cento) non erano tutte rose e fiori. (Nel suo libro Pigi lo racconta in dettaglio, i litigi e le tensioni sull’uno o sull’altro libro, sull’uno o sull’altro personaggio, sull’uno o sull’altro “valore”, su tutto insomma).
Ben presto ho avvistato e poi conosciuto l’avvocato Vittorio Battista, ai miei occhi un borghese compiuto e delizioso. Sapevo che era stato l’avvocato a protezione della famiglia Mattei, la famiglia missina aggredita dalle fiamme accese da alcuni militanti (delinquenti) di “Potere operaio”, e ne morirono bruciati vivi due dei loro figli.
Mai un attimo ho dubitato che l’attentato fosse opera dell’estrema sinistra e se qualcuno mi si fosse presentato a farmi firmare quel grottesco appello a difesa dell’innocenza degli imputati di cui parla Pigi, lo avrei preso a calci in culo.
Quando poi seppi che l’avvocato Battista era stato scelto come avvocato d’ufficio dell’ex brigatista rosso Valerio Morucci (che non conoscevo e che in seguito sarebbe divenuto mio amico) mi precipitai dal mio direttore all’ “Europeo”, Claudio Rinaldi, a chiedergli di poterlo intervistare. Mi piaceva moltissimo l’idea di uno che difende in punta di diritto ora la famiglia Mattei ora un terrorista “rosso”. In punta di diritto e di verità.
Andai dall’avvocato Battista, di cui mi piaceva anche il modo in cui respirava. Gli chiesi se quando incontrò per la prima volta – in cella – Morucci gli avesse stretto la mano. “Ci ho pensato un attimo primo di farlo. Poi sì, gliel’ho stretta” mi rispose. E in quella risposta c’era tutto intero l’avvocato Battista, c’era tutto intero tuo padre, Pigi. Tuo padre, non “tuo padre fascista”.
Dopo il 25 aprile 1945 non ci sono più fascisti e antifascisti, ci sono persone, ognuna con una sua storia, con un suo dolore, con una sua memoria, con un suo onore, con una sua lealtà, con una sua capacità piccola o grande di misurarsi con il diverso e con “l’altro”. Questa è la vita, questa deve essere la nostra vita. Delle etichette ideologiche, Pigi, mi ci pulisco le scarpe. Come del resto oggi fai anche tu. Grazie della dedica che hai messo nella copia che mi hai inviato.
3 risposte a “Mio Padre era fascista”
Bella storia, anzi…storie.
Certo che con idee così diverse lo scontro é inevitabile; il buon senso e l’affetto e sicuramente la personalità dell’uomo-padre che mitiga l’aria….diciamo
Straordinario raccontarlo, scriverne: un lavoro di scavo penso doloroso e come è scritto…necessario.
Grazie per la condivisione
Ciao
.marta
Ascoltare di persona l’autore è stata per me un’esperienza appagante, ero preparato sull’argomento e Pigi è, veramente un simpatico intrattenitore, oltre che un ottimo ed intelligente giornalista.
Alcuni lo chiamano, in senso dispregiativo, revisionismo storico, ma a riguardare le pagine della guerra civile o dell’epopea resistenziale che dir si voglia, non si può certo dire che la scelta obbligata dei ventenni del 1943 dopo l’otto settembre fu facile e priva di sentimento. Questo libro mi pare equilibrato dal punto di vista della “revisione” .