Nato ad Alessandria nel 1932, emerito Ordinario di Semiotica e della Scuola Superiore di Studi Umanistici presso l’Università di Bologna, misconosciuto in Italia sino alla pubblicazione, 1980, del suo primo romanzo: “Il nome della rosa”, premio Strega 1981. L’opera che deve il suo titolo ad un verso: “stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus“, del “De contemptu Mundi” di Bernardo Morliacense, monaco benedettino del XII secolo. “Il nome della rosa” è il punto di confluenza degli studi di Eco, che al riparo di un avvincente “giallo” intreccia il dibattito fondamentale sia religioso che laico dell’epoca, quello sul “nominalismo”: ciò che ci rimane di tutte le cose, le più grandi città, gli uomini famosi, le più belle donne, sono solo nomi. E’ la versione mediovale del dibattito che attraversa tutta la storia della Filosofia dal suo nascere ad oggi. E’ il racconto del Medio Evo per bocca di un cronista dell’epoca ed è un “giallo” perché, al pari della Metafisica, “il racconto poliziesco rappresenta una storia di congettura allo stato puro” come ha affermato lo stesso Umberto Eco.
Nell’opera, come in tutti i successivi romanzi di Eco confluisce lo studio semiotico dell’autore: il fluire della trama è dato infatti proprio dai “codici” medioevali e dall’intreccio dei vari sensi e significati interpretativi dell’epoca. Lo scritto è scorrevole ed avvincente ed il lettore è proiettato nella realtà monastica medioevale, nel “tempo” medioevale, tutto scandito, dall’alternanza tra tempo sacro (dal “mattutino” a “compieta”, alle festività) e tempo profano, così come anche lo spazio è diviso in sacro (il luogo della preghiera) e profano. “Il nome della rosa” è affascinante ed Umberto Eco è catapultato anche finalmente da noi a quel primissimo piano che gli spetta e che a livello mondiale già gli era riconosciuto.
Umberto è ora nell’olimpo definitivo dei più grandi scrittori italiani del XX e XXI secolo.
3 risposte a “Un maestro, mi ha lasciato, ci ha lasciati…”
Il romanzo è ambientato nel 1327 in un monastero benedettino dell’Italia settentrionale ed è narrato in prima persona dal protagonista, Adso da Melk, che ormai anziano racconta le vicende accadute al monastero, e le indagini condotte dal suo maestro, Guglielmo da Baskerville. L’intera vicenda si sviluppa in sette giorni, che Adso nelle sue memorie suddivide secondo la scansione del giorno della regola benedettina (mattutino e laudi, ora terza, ora sesta, ora nona, vespri, compieta). Guglielmo da Baskerville, monaco inglese ed ex inquisitore seguace del filosofo Ruggero Bacone, ha l’incarico di mediare un incontro tra francescani, protetti dall’imperatore Ludovico il Bavaro, e gli emissari del papa di Avignone, Giovanni XXII. Il monaco inglese e il suo allievo giungono all’abbazia, dove, durante la loro permanenza di una settimana, vengono uccisi sette monaci: tutti i delitti sembrano ruotare attorno alla biblioteca del monastero, che nasconderebbe un misterioso segreto. Indaga anche l’inquisitore Bernardo Gui, che condanna al rogo due monaci (ex eretici dolciniani) e una donna, accusandoli degli omicidi senza avere prove valide. Guglielmo da Baskerville, con l’aiuto del suo allievo, scoprirà il vero responsabile e il movente: tenere nascosta la scoperta ed evitare la lettura del secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato alla commedia e in particolare al riso. Un terribile incendio che distrugge l’abbazia e il manoscritto conclude il romanzo e le indagini di Guglielmo.
Il nome della rosa si presenta come un romanzo complesso, non appartenente a un singolo genere e che sotto la patina “gialla” cela la ricchezza di rimandi intertestuali e il gioco citazionistico (dai classici latini alla letteratura medievale, dai romanzi ottocenteschi alla cultura dei mass-media) tipicamente postmoderno del suo autore. Innanzitutto si tratta di un romanzo storico, sul modello dei Promessi sposi di Manzoni, in cui vicende e personaggi inventati sono calati in una determinata epoca storico e contesto sociale. In questo caso Eco ricostruisce l’Italia medievale delle controversie religiose e degli scontri tra Papato e Impero, inserendo oltre a personaggi inventati, anche figure storiche, come l’imperatore Ludovico il Bavaro o fra Dolcino; mentre l’ambientazione e l’atmosfera ricordano quelle dei romanzi gotici del Sette-Ottocento. I delitti e le indagini sono tipici del romanzo giallo: lo stesso nome di Guglielmo da Baskerville ricorda in maniera trasparente il titolo del noto romanzo di Arthur Conan Doyle, Il mastino dei Baskerville, una delle più famose indagini di Sherlock Holmes. Holmes e il monaco inglese (cui ovviamente corrispondono il dottor Watson e il buon Adso…) utilizzanno il metodo deduttivo, basato sulla ragione e la scienza, per arrivare ad accertare la verità; a differenza del modello classico del giallo però, Il nome della rosa si conclude con il successo dell’assassino, che, pur morendo, riesce a distruggere il manoscritto di Aristotele.
Diversi sono i livelli di lettura del romanzo, che presenta diversi riferimenti filosofici, letterari e metanarrattivi; il lettore viene sfidato dallo scrittore a individuare questi indizi all’interno dell’opera e a riconoscere le citazioni, colte o esplicite che siano. Così, al piano della trama si intreccia sempre la riflessione dell’autore, sulla scorta dei suoi interessi filosofico-semiologici, sulla pluralità delle letture possibili che ogni testo (compreso il suo) può avere. Lo stesso titolo del romanzo (tra quelli scartati, L’abbazia del delitto e Adso da Melk) è assai indicativo in questo senso: da un lato, esso rimanda alla complessa simbologia della rosa, presente in moltissime opere della letteratura medievale. Dall’altro esso si ispira, come spiega Eco stesso, ad un esametro tratto dal De contemptu mundi di Bernardo Morliancense, autore del XII secolo. Sostituendo “Roma” con “rosa” (e ricollegandosi ironicamente alla nota “disputa sugli universali” della filosofia scolastica medievale), lo scrittore pone alla fine del suo libro la frase: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus” (“la rosa primigenia esiste solo come nome, noi possediamo nomi nudi”), sottointendendo così che a fondamento della realtà (delle cose umane, e quindi anche alla base di ogni nostro percorso di conoscenza e di indagine) rimangono solo i “nomi”. In questo caso il verso può essere spiegato come una riflessione sulla transitorietà delle cose, di cui, alla fine, rimane solo l’aspetto verbale.
Ciao Smemo, ti confesso confesso che di lui ho letto molto ma il mio preferito è il primo. Il nome della Rosa. Non capisco perché lo odiasse, mentre io lo amo così tanto da averlo letto 4 volte.. Quante meningi ho spremuto per dare un senso a quellultima frase in latino…
E l’invenzione meravigliosa del secondo libro della Poetica di Aristotele? Che cosa meravigliosa e che critica magistrale alla religione Cattolica così triste…