Per ricordare Enzo Jannacci, senza che ricorra un’occasione particolare o una scadenza, se così vogliamo dire, ecco un testo della maturità, che fa parte del filone del non sense di Jannacci. Un testo, recuperato dal repertorio di Cochi e Renato, con allusioni ironiche a pratiche sessuali insolite. Uno dei tanti riff intramontabili che dobbiamo a Enzo Jannacci.
Silvano
A vunn, a du, a tri…
il titolo è amami:
amami e sgonfiami
e amami, sdentami, stracciami, applicami
e dopo stringimi
dammi l’ebbressa dei tendini
oh yeah
prendimi, con le tue labbra caressami
Rino, non riconosco gli aneddoti
e sfiondami spostami tutte le efelidi
aprimi, picchiami solo negli angoli
oh yeah
Brivido, no non distinguo più i datteri
Silvano non valevole Ciccioli
Silvano mi hai lasciato sporcandomi
e la gira la gira la roda la gira
e la gira la gira la roda la gira
e la storia del nostro impossibile amore
continua anche sensa di te
Silvano non valevole Ciccioli..te!
Silvano mi hai sporcato girandoti
e la gira la gira la roda la gira
e la gira la gira la roda la gira
e la storia del nostro impossibile amore
continua anche sensa di te..te!
E allora amami
amami, stringimi, sgonfiami, amami
e allora amami,
sdentami, stracciami, applicami,
amami
e stringimi
dammi l’ebbressa dei tendini,
prendimi con le tue labbra fracassami
oè oè
Rino
sfodera, scuse plausibili,
girati, scaccia il bisogno del passero
lurido, soffiati il naso col pettine
Everest, sei la mia vetta incredibile
Silvano non valevole Ciccioli
…………
Enzo Jannacci fu autore di testi anche per Cochi e Renato, per il celebre duo scrisse nel 1978 “Silvano”, una canzone che interpretò personalmente nel 1980, divenne il lato B del singolo “Ci vuole orecchio”.
“Silvano” é un pezzo che parla di una nemmeno troppo velata storia d’amore gaia.
Dire che le strofe abbiano un senso sarebbe un nonsense (appunto).
“Silvano”, infatti, snocciola parole buffe e musicali, quasi a voler anticipare lo stile di un futuro paroliere, Pasquale Panella, che nel 1986 Lucio Battisti avrebbe condotto alla ribalta con il suo “Don Giovanni”.
“Amami, sdentami, stracciami, dammi l’ebrezza dei tendini”, recita il testo, introducendo la figura di un soggetto, tale Rino, che non ci é ben dato di sapere chi é.
“Schiodami, spostami tutte le efelidi” prosegue Enzo, arrivando a complicare ulteriormente le cose con il ritornello che dice “Silvano non valevole ciccioli”.
Il grande Jannacci la storia l’ha raccontata presentando la canzone durante un concerto: il padre di Silvano quando lo registrò all’anagrafe disse all’impiegato che l’avrebbe voluto chiamare Silvano e un altro nome; l’impiegato che non capì quale, scrisse “non valevole” e quello diventò il secondo nome del povero Silvano.
Ma ecco che nella seconda strofa ritorna il misterioso Rino, con cui probabilmente il protagonista sta cercando di scordare il suo amore infelice, al quale dice, senza tanti mezzi termini, “girati, scaccia il bisogno del passero”.
Ok, Dottor Jannacci… va bene che eravamo nei dintorni del Derby (che era praticamente il nonno di Zelig), però c’è un limite anche ai doppi sensi.
E poi non le sembra di essere un po’ megalomane quando, millantando dimensioni alla Rocco Siffredi, canta “Everest, sei la mia vetta incredibile? Ma va la, va la… ipocrita bacchettone! (questo sarei io)
“Silvano” è un pezzo divertente ed irriverente. Inutile volergli attribuire chissà quali significati. Va preso per quello che è, con la sua goliardia e la sua voglia di parlare di diversità con quei toni allegri e scanzonati, per sdrammatizzare, in tempi ancora pregni di oscurantismo sull’argomento omosessualità.
E questo sì che era puro genio. Oh, yessss!
3 risposte a “Silvano, non valevole CICCIOLI”
«Arriva in taxi?». E lui: «Sì, sì, arrivo in taxi». Dopo mezz’ora mi aveva richiamato da un luogo imprecisato in Bovisa per avere conferma dell’indirizzo e gli avevo ripetuto via e numero civico. Enzo Jannacci era stato molto gentile ad accettare di cantare nel disco d’esordio dei Selton, un quartetto di musicisti brasiliani che la Barlumen Records (il mio socio Gaetano Cappa e io) aveva messo sotto contratto da poco e che stava registrando Banana à milanesa, album di tributo alla milanesità di Jannacci e Cochi e Renato cucinata in salsa tropicalista. Nessuno, nel 2007, poteva immaginare che sarebbe stata la sua ultima apparizione discografica.
La fama di personaggio dadaista e imprevedibile venava il leggero ritardo di Jannacci di una certa preoccupazione. «Che cosa potrebbe mai combinare attraversando Milano in taxi?», ci chiedevamo. In studio i più tranquilli erano proprio i quattro ragazzi brasiliani. Per loro lui era soltanto un musicista di una certa età che avevano imparato ad apprezzare ascoltando e riascoltando cd di musica italiana per decidere quale cover italiana incidere per il loro debutto. Dopo aver scartato Dalla, Conte, Fossati e De André, i Selton avevano puntato decisamente su Jannacci e su Cochi e Renato, sedotti dalla vena surreale di canzoni come Giovanni telegrafista, Canzone intelligente e Ho visto un re.
Quando il ritardo aveva cominciato a diventare inspiegabile, ero uscito in strada ad aspettare… Continuavo a scrutare verso sinistra alla ricerca di un taxi bianco in avvicinamento e non mi accorsi che da destra, ossia contromano, stava arrivando questa figura che spingeva un vecchio motorino spento.
Il casco calato sulla testa rendeva la figura impossibile da identificare, ma dentro di me avevo capito tutto: il palombaro che intralciava il traffico della via procedendo contromano a motore spento era Enzo Jannacci. Capii: al telefono mi aveva detto che avrebbe preso il taxi per depistare i parenti, poi aveva inforcato il «Sì» di nascosto e si era avventurato dall’altra parte di Milano. Guidare alla sua età era rischioso, pensavano loro. E lui, tac, di nascosto. Ancora col casco in testa mi aveva detto, nel suo modo strascicato: «Sono Jannacci, la moto mettiamola dentro che se no me la rubano. Guarda com’è sporca: non l’ho mai lavata!».
Poi finalmente l’ingresso in studio, dove si scatenò l’energia entusiastica di un musicista ultrasettantenne alle prese con quattro colleghi poco più che ragazzi, provenienti da un’altra era geologica e dall’altra parte del mondo. Con i Selton si intese subito a meraviglia nonostante le barriere linguistiche, e dalla session di registrazione vennero fuori una splendida Pedro pedreiro di Chico Buarque (che lui aveva già interpretato) e una travolgente Silvano, incisa tutta dal vivo in una singola take avventurosa al piano, coi quattro musicisti brasiliani intorno al grande vecchio a ripetere in coro il glorioso trisillabo sdrucciolo «Amami» (loro tendevano a pronunciare «Am-mami» e lui a puntualizzare: «Amami, con una emme, non am-mami! E va beh, ma come faccio a trasformare quattro brasiliani in quattro della Bovisa?») e poi a intonare tutti assieme l’indecifrabile – e tuttora indecifrato – verso: «Silvano, non valevole ciccioli». Jannacci teneva il tempo battendo il piede sul pavimento, provocando un battito ritmico che andava a disturbare la registrazione, così mandammo il giovane fonico Michele a piazzare un cuscino sotto il piede del Maestro, il tutto senza interrompere la registrazione che andava avanti come per magia. A un certo punto squillò il cellulare di Jannacci, che non se ne accorse; per miracolo la suoneria era in tonalità e scompariva nella trama generale della musica e prima della fine partì pure la sirena d’allarme di un’auto parcheggiata fuori. La canzone arrivò alla fine integra e bellissima: spontaneo partì l’applauso di tutti, ragazzi, tecnici e produttori.
Si fermò ancora un’oretta a chiacchierare con i quattro Selton, lui esperto raffinato della musica brasiliana, loro incantati dal magnetismo di quell’artista sorprendente. Poi si mise il casco, fece ancora notare a tutti quanto fosse sporco il suo motorino, e ripartì verso Città Studi, stavolta girato per il verso giusto.
– Il bardo dei poveri cristi – Moni Ovadia:
Il nostro punto d’incontro è Milano. Enzo Jannacci raccontava e cantava la Milano che io ho vissuto. Ma la stessa orgogliosa città, albergava nei suoi interstizi e nei suoi sottofondi, la povera gente, i disperati, i fuori di testa, gli esclusi, i sognatori senza voce, i terroni, gli abbandonati dall’amore e dalla vita, le puttane navi scuola da strada e da cinema. Di tutti questi poveri cristi, lui è stato il cantore assoluto.
Quando Jannacci fece la sua comparsa sulle scene della canzone e del cabaret, Milano era una metropoli industriale in pieno ed impetuoso sviluppo, dava lavoro, chiamava gli immigrati dalle periferie meridionali orientali ed isolane dello Stivale. Jannacci ne ha colto, incarnato e raccontato la storia, le emozioni, i sentimenti e la vita vera. Di quel popolo ha interpretato la malinconica, maleducata e balorda grazia, ha rivelato che la poesia dei luoghi, fiorisce nei gesti impropri e sgangherati degli ultimi fra gli ultimi, nella loro grandiosa lingua gaglioffa e sfacciata.
È stato in assoluto, a mio parere, il più originale poeta della canzone che abbiamo avuto il privilegio di ascoltare e insieme un artista inarrivabile nel suo essere stralunato e surreale.
Enzo non era nato povero cristo, aveva fatto ottimi studi in ogni senso, ma quella condizione l’aveva incorporata con arte alchemica. L’aveva assunta nel volto fisso alla Buster Keaton, nei gesti liricamente scomposti, nel modo di suonare la chitarra tenuta bloccata sotto il mento, nella fibra e nel canto della lingua vernacola di cui esprimeva l’anima e di cui aveva trasferito l’umore triste e gagliardo anche nell’italiano. Tutta questa sapienza confluiva nella sua inimitabile voce sguaiata e sul crinale precario della sua intonazione che dava vita ad un capolavoro espressivo e stilistico.
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