oggi abbiamo salutato l’amico Sergio Polin

Oggi giovedì 25 ottobre 2012, alle ore 11:00, si sono svolti a Torino, nella chiesa di Sant’Anna, i funerali di Sergio Polin, 43 anni, originario di Aosta.

L’uomo, non vedente, è stato investito, insieme al cane guida Dharma sulla strada statale 24 a Oulx, lo scorso sabato sera. L’animale è morto sul colpo mentre l’uomo è deceduto all’ospedale, dove era giunto in condizioni gravissime. Lascia la moglie e tre figlie. Chi volesse, può onorare la memoria di Sergio, utilizzando i seguenti dati. La famiglia utilizzerà i fondi per beneficienza:

 

POSTE PAY N. 4023600629335565

INTESTATA A ELISABETTA GRANDE

 

Una messa in suffragio sarà celebrata domenica prossima alle 11 nella chiesa di Saint-Martin de Corléans ad Aosta. La messa di trigesima sarà celebrata il 24 novembre a Torino.

Elisabetta la moglie di Sergio ha introdotto la funzione dicendo: “Questa mattina Sergio mi ha detto di venire da voi a rassicurarvi, perché lui non è li in quella bellissima bara coperta di fiori belli e profumati, li c’è solo il suo corpo. Sergio è qui accanto a me ed insieme a tutti noi. Questa mattina ho proprio visto il suo sorriso di sempre, quando mi ha detto questo. Quindi non siate tristi egli continua la sua vita accanto a noi.” Lei era leggermente emozionata, ma non commossa. La sua Fede era evidente come quella della figlia undicenne che ci ha ricordato il papà più avanti, fatte le dovute proporzioni persino una delle gemelline di sei anni, che ha parlato al microfono in braccio alla giovanissima tata, era piena di Fede.

La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano
quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami!
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore,
ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami:
il tuo sorriso è la mia pace.

Henry Scott Holland (scheda)
Questa poesia è stata letta alla fine dei numerosi e commoventi saluti, che parenti ed amici intimi di Sergio, hanno voluto rivolgergli davanti a tutti noi. Anche se Elisabetta all’inizio della cerimonia e per tutto il suo proseguimento ci ha dato l’esempio evitando l’aperta commozione, confesso di non aver resistito: mi sono commosso numerose volte per quello che è stato un vero ed accorato saluto a Sergio che ha lasciato, grazie al suo entusiasmo trascinante nella vita, un indelebile ricordo in tutti noi.

5 risposte a “oggi abbiamo salutato l’amico Sergio Polin”

    • Chiedo scusa, mi informano che, probabilmente, il codice fiscale è errato, l’ho cancellato dal post. Se andate alla Posta basta il numero della carta e il nome dell’intestatario. Il numero della carta è corretto!

  1. Ho trovato in rete un articolo che Chiara Bertoglio ha scritto per la “Voce del Popolo”, settimanale della diocesi di Torino, in cui raccontavo la vita della famiglia di Sergio Polin, tragicamente scomparso.

    L’aggettivo più appropriato per descrivere l’appartamento la cui porta si chiude alle mie spalle è “colorato”. Le pareti sono tinteggiate in colori qui tenui, là vivaci. Arancioni, gialli, azzurri… La stanza delle bambine è un arcobaleno di tinte, ulteriormente ravvivate dai piumini rosa delle Principesse Disney che – con grande par condicio – adornano tutti e tre i lettini. Entrando in cucina sembra di affacciarsi su una spiaggia assolata, tanto i colori dominanti sono il blu ed il giallo intenso. E dappertutto mille dettagli allegri, raffinati, armoniosi.

    Perché iniziare il racconto di una nuova “storia di speranza” da qui? Avrebbe un senso solo se stessi per parlare di un architetto d’interni, probabilmente. O forse no. Ha senso anche qui. Anche se Elisabetta e Sergio sono, di professione, rispettivamente tiflologa e centralinista, il fatto che la loro casa sia una casa colorata non è per nulla indifferente. Perché Sergio non ci vede per niente, ed Elisabetta riesce appena a percepire la luce e qualche impressione dei colori.
    Alla porta di casa sono appoggiati due bastoni bianchi, uno più lungo e l’altro più corto. Mi ricordano un po’, chissà perché, la danza dell’ombrellino da donna e della canna da passeggio maschile in una scena molto poetica del film “Mary Poppins”. In effetti, a casa Polin la condizione di disabilità di Sergio ed Elisabetta fa parte della vita, con la massima semplicità. Sergio ed Elisa betta non si vogliono bene “perché” entrambi non vedono, e neppure “nonostante” il fatto che entrambi non vedono. La disabilità fa parte della loro condizione, della loro personalità, un po’ come i capelli neri fanno parte della personalità di Sergio e quelli castani di quella di Elisa. Amarsi è accogliere l’altro nella sua integrità. Di questa integrità, anche la condizione di handicap fa indubbiamente parte, ma non è né l’aspetto più importante né l’unico.
    Così, anche l’enorme cane lupo Dharma fa parte della famiglia (come dice subito Elisa, che, presentandosi, elenca i membri della tribù: due gemelline di cinque anni, Gaia ed Aurora, la figlia più grande, Alice, nove anni, il cane… e il marito). Si dà da fare, Dharma, che è un cane guida di tutto rispetto. Ma credo che l’intera famiglia Polin insorgerebbe come un sol uomo se si dicesse che Dharma è lì in quanto è un ottimo cane guida. Dharma è il cane di casa, punto e basta. E poi dà una mano, o una zampa, rendendosi utile con Sergio ed Elisa. Ma a vedere questo cane gigantesco, sdraiato sulla schiena in mezzo al salotto, ad elemosinare a furia di leccate e scodinzolamenti una bella grattatina sulla pancia, si capisce che Dharma è qui perché le si vuole bene e perché vuole bene ai suoi padroni. Non primariamente per assistere due persone portatrici di handicap.
    D’altronde, anche nel parlare di sé, Elisa e Sergio mettono in evidenza tanti altri aspetti della loro vita e della personalità, che ritengono assai più importanti e centrali della loro realtà di non vedenti. Mamma Elisa ha compiuto da pochi giorni i quarantaquattro anni: e il suo bilancio della vita finora trascorsa è assolutamente positivo. “La cosa più importante e più centrale della mia vita è che ho tre bimbe: da piccola desideravo soprattutto avere dei bambini, perché li adoro. Avrei anche voluto essere insegnante, ma non vedendo non potevo lavorare con i bambini piccoli”. Già dalle prime battute emerge una caratteristica che ci accompagnerà lungo tutto il nostro incontro: un grande realismo nel fare i conti con la situazione, ma, allo stesso tempo, la volontà di non darsi per vinti, di cercare sempre il modo migliore di far quadrare le proprie aspirazioni e la condizione in cui ci si trova. Un atteggiamento che non vale soltanto per la cecità, ma, ovviamente, per ogni occasione della vita.
    Se, infatti, Elisa è la prima a riconoscere che è opportuno per una maestra poter tenere gli occhi bene aperti (e vederci), tuttavia anche il lavoro che svolge le permette di stare con i bambini ed essere loro utile; e, casomai i bimbi con cui opera non le bastassero, c’è sempre il terzetto delle signorine Polin ad attenderla a casa con il loro misto irresistibile di coccole, allegria e sana confusione. Elisa, tiflologa, si occupa dell’inserimento scolastico di bambini con disabilità visiva, sotto gli aspetti clinici, psicologici e pedagogici dei bambini che prende in carico e delle loro famiglie. Elisa conosce bene questa realtà: “Anch’io sono nata”, racconta, “con un problema di vista congenito. Fa parte di me, della mia identità personale: mi è difficile pensarmi altrimenti. Fino all’età di undici anni, pur essendo ipovedente, vedevo molto più di adesso: poi una pallonata mi ha fatto perdere la vista dall’occhio da cui vedevo meglio”.
    Laureata in filosofia, ha intrapreso l’attività di tiflologa quasi per caso; tuttavia, ne è molto contenta, perché è una professione che la arricchisce e le dà grandi soddisfazioni. Con Sergio si sono conosciuti “un mare di anni fa”, sedici o diciassette. Lui, aostano, era a Torino per studiare pianoforte in Conservatorio. Leggendo un articolo in cui Elisa raccontava la sua esperienza in un laboratorio teatrale, prende contatto con lei. E, dopo sette mesi di paziente corteggiamento da parte di Sergio, scocca la scintilla. Tuttavia, curiosamente, entrambi erano convintissimi che non sarebbe durata: tutti e due non erano mai stati fidanzati con una persona non vedente, e immaginavano facilmente tutte le difficoltà a cui sarebbero andati incontro. “In una coppia di non vedenti”, ammette Elisa, “si ha un terreno comune nel condividere esperienze, sensazioni, desideri, frustrazioni… ma a livello pratico! Entrambi siamo molto dinamici, ci piace viaggiare e provare tante esperienze. Così abbiamo deciso di intraprendere una serie di prove: il primo week end in montagna, la prima vacanza al mare…”. Senz’altro era positivo il fatto che Sergio fosse già abituato a vivere da solo. Così, visto il successo delle varie “prove”, e visto che anche la coppia (i cui componenti erano i primi a vaticinarne la breve durata) si rivelava invece assai solida, Sergio ed Elisa decidono di compiere il grande passo, e nel 1997 si sposano.
    Un altro grande passo li attendeva, tuttavia. Dopo anni di riflessione comune, Sergio ed Elisa decidono di avere un bambino (anche se, confessa Elisa, “Fosse stato per me sarei diventata mamma subito”!). Oltre alle difficoltà di crescere un bambino non avendo la vista, c’era da valutare, infatti, anche la possibilità che il bimbo nascesse con una disabilità: la patologia di Elisa non è ereditaria, ma quella di Sergio avrebbe potuto trasmettersi agli eventuali figli. Questa possibilità, confessa Sergio, “era per me un po’ un blocco psicologico, uno scoglio da superare”. Elisa, però, sostiene che l’accoglienza della vita, anche nella possibilità di una disabilità, ha rappresentato forse anche per i genitori la capacità di accogliere se stessi e la propria condizione in un modo ancor più sereno e responsabile: “Tutto sommato, con una disabilità sensoriale si può vivere una bella vita, soddisfacente da tutti i punti di vista. Non tutti possono fare tutto, è ovvio… Ognuno di noi ha dei limiti che deve imparare ad accettare e, per quanto possibile, a superare”. Sergio rincara la dose: “Anch’io ero ipovedente e poi ho perso completamente la vista per circostanze estranee alla mia patologia. Ho avuto una vita piena di chances, con tante esperienze che non mi hanno impedito di fare una vita normale. Discutendo con Elisa, lei mi ha fatto superare questo ostacolo che era anche un po’ anche egoistico”.
    L’arrivo di Alice scioglie tutti i dubbi, mostrando ad Elisa e Sergio come la genitorialità sia la sfida più grande e più bella per ogni persona, al di là della propria condizione. Sergio confida: “La nascita di Alice è stata un’esperienza meravigliosa, e, diventando papà, mi sono reso conto che non mi sono detto: «Come farò, dato che non ci vedo?», ma piuttosto «Come farò?» e basta, come un papà qualunque”. La routine di pappe, pannolini e biberon, che Sergio ed Elisa svolgono da subito in modo intercambiabile, contribuisce da sé a fugare le preoccupazioni: “Sei talmente preso dalle piccole cose di tutti i giorni, ti assorbe talmente il dover gestire tua figlia, crescerla accudirla, che il problema non si pone più”.
    Elisa sottolinea questo aspetto: “È un messaggio importante da trasmettere ai genitori che si pongono il problema di un potenziale handicap del figlio”. Preoccuparsi in anticipo, affermano, è inutile. E lo dicono a ragion veduta, perché, effettivamente, la piccola Alice dei problemi di vista li ha, avendo una forma frusta della patologia di Sergio. “Il fatto che Alice sia ipovedente non ci ha sicuramente fatto fare i salti di gioia, ma non ci ha neppure rovinato la vita”, dice Elisa. “In gravidanza pensavo alla possibilità che mio figlio potesse avere dei problemi, ma ero sicura della mia scelta, non mai avuto dubbi. Inoltre”, prosegue, “ci siamo resi conto che noi genitori, avendo lo stesso problema, avremmo potuto dare ad un bimbo eventualmente disabile molto più di quello che avrebbero potuto dare altri genitori, in termini di serenità, rassicurazione e anche competenza. Per esempio, sapevamo benissimo che era inutile sottoporre la bambina a prove visive fino ai tre anni, e così abbiamo evitato di stressarla”.
    Una serenità, seppur conquistata con qualche fatica, che porta Sergio ed Elisa a compiere ancora una scelta coraggiosa e positiva, aprendosi nuovamente alla vita: “Io sono figlia unica”, racconta Elisa, “e ho sempre voluto avere più bambini, perché crescere insieme è bellissimo. Così abbiamo deciso di dare un fratellino ad Alice. È stato molto divertente”, confessa, ridendo. “Alice aveva quattro anni ed avrebbe voluto due fratellini. Noi le abbiamo detto di non esagerare… Ma poi ha avuto ragione lei: erano due gemelle! Lì sì che è stato un po’ uno choc”, ammette. “Quella sera io le ho fatto coraggio”, ricorda Sergio, “ma lei, sconvolta dalla notizia, mi dava dell’incosciente. D’altronde era quello che ci dicevano tutti. Molti tendono a giudicare, a voler valutare da fuori cosa sarai o non sarai in grado di fare”. “Noi non ci facciamo più caso”, interloquisce Elisa. “Pazienza e ironia sono la ricetta giusta”, esclama Sergio “altrimenti l’integrazione resta una parola scritta sulla carta”. Ed Elisa riprende: “Purtroppo, quando hai una disabilità, ti imbatti continuamente nel pregiudizio e nell’ignoranza. Io adoro”, sostiene, accalorandosi, “le persone che semplicemente mi vengono vicino e mi manifestano dubbi o curiosità, per esempio chiedendomi come faccio a dar da mangiare a un bambino o a cambiarlo… Mi fa piacere perché così non si formano i preconcetti del tipo: non ci vede, non può farlo”.
    Fondamentale, ovviamente, è l’apporto e la cooperazione degli altri, cercata con umile semplicità ma anche con profonda dignità. “Come ogni persona, anche i normodotati, anche noi abbiamo bisogno di aiuto”, spiega Elisa, raccontandoci l’importanza che ha per lei ricevere una mano in casa e con le bambine. Con il suo carattere, è ovvio che ci tiene ad essere quanto più possibile autonoma ed indipendente, ma senza strafare e sapendo chiedere quando occorre. Eppure, così come Elisa e Sergio hanno imparato sia a farsi aiutare sia ad essere indipendenti, vorrebbero che questa normalità venisse accettata anche da fuori. Mi raccontano, con un misto di ironia e disappunto, che talvolta la gente pensa che la loro collaboratrice familiare, Lorena, sia la loro “badante”; che una volta, mentre Sergio portava Alice in bob, un signore ha messo in dubbio che fosse “veramente” il papà della bambina; che i passanti, vedendo le bambine piccole, facessero i complimenti di rito ai nonni anziché rivolgersi direttamente a papà e mamma. “Il problema sono gli adulti, non i bambini”, sostengono entrambi. I bambini sono candidi e semplici, chiedono con sana curiosità. “Una volta”, ricorda Sergio, “ero con Alice piccola ai giardini. Con lei andavo da solo, perché Dharma mi faceva anche da… cane da riporto!”, racconta, ridendo. “Una bambina mi si avvicina e mi chiede quando mi sono «accecato». La mamma l’ha rimproverata così duramente che la bimba è scoppiata a piangere. Io mi sono arrabbiato, perché era molto più corretto il comportamento della bambina rispetto a quello della madre. Il bambino ti chiede perché il tuo cane ha il maniglione o perché hai il bastone bianco. Si ha paura di ciò che non si conosce!”.
    L’esperienza genitoriale ha ulteriormente contribuito a rafforzare questa consapevolezza in Sergio ed Elisa. Mi raccontano che erano abituati ad andare in vacanza da soli, persino a Santo Domingo, seppur organizzando per bene le cose in anticipo. Con l’arrivo delle bambine, furono loro due i primi a rendersi conto che questo non era più possibile: da un lato, ammettono, su una spiaggia i bambini vanno sorvegliati; e dall’altro non volevano che fossero le loro figlie ad “accompagnare” loro, perché questo avrebbe sovvertito il loro ruolo genitoriale: “Non voglio che, a vent’anni, mia figlia sia stufa di fare la crocerossina”, sentenzia Sergio. Ciò non vuol dire, ovviamente, rinunciare ad educare i figli al servizio ed alla solidarietà; ma nella normalità delle cose ed in proporzione alla loro età, come tutti i bambini, né pretendendo da loro che siano al servizio dei genitori, né rinunciando ad esigere le cose giuste alla giusta età. Sergio, in particolare, torna a più riprese su questo punto: ci tiene molto ad avere l’autorevolezza che è necessaria alla figura paterna, senza che l’handicap visivo la indebolisca. Gli ha fatto molto piacere, per esempio, quando un bimbo di tre anni, compagno d’asilo delle gemelle, che non ha il papà, gli è saltato spontaneamente in braccio: “Per lui”, dice Sergio, “io ero il papà di Gaia, un papà. Non un cieco. Io pretendo di essere riconosciuto, da me stesso prima ancora che dalle mie figlie, come una figura paterna. Mi arrabbio quando i papà non vedenti non perseguono quest’obiettivo”. “Sono abitudini che si stratificano, si cristallizzano e creano problemi di credibilità e di rispetto”, aggiunge Elisa.
    Per Sergio ed Elisa, la condizione di disabilità visiva comporta piuttosto un “dovere civile”: quello di non arrabbiarsi, di dimostrare con serena tranquillità ciò che un non vedente può fare. “Se ti vedono cambiare un bambino o trovare da solo l’uscita di un edificio capiscono che, d’ora in poi, potranno aiutarti se lo vorranno, ma potranno anche sorprendersi di ciò che sai e puoi fare”, sintetizza Elisa. Per raggiungere questo equilibrio, ovviamente, è importantissima la propria serenità interiore in primis: i due non risparmiano frecciate a chi approfitta della propria disabilità per crogiolarvisi passivamente. Una condizione talora assai presente proprio nelle coppie in cui solo uno dei due (in particolare quando ciò accade all’uomo, sottolinea Elisa) è non vedente.
    Pregiudizi e barriere, concordano, sono eretti sempre da due parti: dai normodotati, sì, ma anche da alcuni disabili. Parlare, conoscere, sperimentare: è la loro ricetta per superare il preconcetto. “Nel mondo, ognuno è diverso dagli altri: ogni vita è diversa ma può essere soddisfacente. Per i tuoi bambini è normale che i genitori non vedono… Da piccoli, anzi, fanno toccare tutto a tutti perché non distinguono chi vede e chi no. Se poi si è sereni, si affronta anche con i figli il discorso delle limitazioni che l’handicap comporta: con Alice parliamo del fatto che gli altri papà e mamme guidano l’auto e noi no”. La conoscenza, però, dev’essere diretta, non immaginaria: entrambi, ricordando il periodo precedente il peggioramento delle loro condizioni visive, ammettono che non potevano immaginarsi cosa sarebbe stato vivere da ciechi. Fondamentale, perciò, anche usufruire di esperienze come “Dialogo nel buio”, un’iniziativa in cui si “esplorano” diversi contesti quotidiani senza l’uso della vista. È una mostra in cui Sergio è stato guida per qualche tempo, assistendo alle piccole rivoluzioni copernicane che avvenivano nella mentalità dei visitatori. “Non tutti hanno capito la filosofia di base”, ammette Sergio. “Per alcuni era «vivere da cieco per un’ora». L’idea era invece quella di valorizzare gli altri quattro sensi. E vedevo che bastava pochissimo perché diventassero molto più ricettivi nei confronti degli altri stimoli sensoriali, per esempio accorgendosi che avevo silenziosamente aperto una porta grazie al cambiamento di atmosfera”. “Sono modi”, interviene Elisa, “per sospendere un po’ il giudizio, per interrogarsi, per guardare in modo un po’ altro. Chi esce da queste esperienze con almeno una domanda l’esperienza ha già raggiunto il suo obiettivo”.
    Ed è in questo modo che Sergio ed Elisa desiderano educare Alice, Aurora e Gaia, trasmettendo loro i propri valori fondamentali: “Per noi sono cruciali il rispetto e l’amore per la vita”, sostiene Sergio. “Apprezzare ogni minuto dell’esistenza, gustandolo fino in fondo; essere proiettati e disponibili verso gli altri, disponibile. Valorizzare quello che ti viene dato, per quanto piccolo. Imparare a rispettare ed a farsi rispettare, indipendentemente dall’età della persona e a prescindere dal fatto che siamo non vedenti. Penso che ci stiamo riuscendo: lo vediamo nelle piccole ma soprattutto in Alice, che è molto altruista ed aperta nei confronti degli altri. Ieri c’è stata una rissa a scuola ed Alice è accorsa in difesa di un bambino in difficoltà”, racconta orgoglioso. E l’impressione, uscendo da casa Polin, è che non sia solo il loro appartamento ad essere tinteggiato con colori allegri, luminosi e colorati: variopinta, radiosa e solare è soprattutto la famiglia!


  2. Carissimi Colleghi,
    Come abbiamo appreso dagli organi di stampa il nostro Collega Sergio Polin ci ha improvvisamente lasciati.

    La famiglia, costituita da tre figli minori e la moglie, attraversa un periodo non facile.

    Confidando nella solidarietà che ci ha sempre contraddistinto, l’Associazione ” N.O.I. di Unicredit – Nord Ovest Insieme Onlus” lancia una raccolta di fondi straordinaria sul conto corrente IBAN IT96S0200801400000102321872 intestato: N.O.I. di Unicredit – Nord Ovest Insieme Onlus – Sostegno Famiglia POLIN.

    Per consentire l’accesso al Gift Matching le somme raccolte verranno donate alla Famiglia attraverso la Fondazione Operti, che si è immediatamente resa disponibile per sostenere questa iniziativa.

    Facciamo appello alla sensibilità ed al grande cuore di tutti per dare un aiuto concreto alle bimbe ed alla moglie di questo sfortunato Collega.

    Grazie fin d’ora per quanto vorrete/potrete fare, un abbraccio a tutti.

    Alberto Garabello – Presidente Associazione N.O.I. Onlus

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