lettera

Pianse Riccardo quando ascoltò un altro bimbo che chiamava il proprio nonno: “nonno, nonno!”. “No, no il nonno è mio”, aveva pensato che solo lui avesse un nonno, “nonno è mio”, protestò.

I bambini ci sorprendono, a volte: “Sai cosa ho scoperto papà? Che il mio nonno è anche il tuo papà.” Certo Riccardo il nonno è importante per noi e quando la maestra ti fece partecipare al concorso di poesia, per dimostrarglielo tu scrivesti:

nonno Felice

Il nonno più bello
abitava in un trullo,
che, per lavorare
alla FIAT, ha dovuto lasciare.
Così Felice, di nome e di fatto,
un giorno lontano ha lasciato il suo tetto.
Sul lungo treno col figlio piccolino
è arrivato a Torino.
Ora in pensione è già andato
così mi guarda se sono malato.
Io volentieri lo vado a trovare:
un nonno così si può solo amare.

 

Frequentavi la 2a elementare. Con quelle parole semplici che sicuramente t’erano state ispirate dai racconti miei e di mio padre rinnovasti i miei ricordi. Mi rividi quando anch’io frequentavo un classe seconda presso una scuola media pugliese. Era febbraio quando tuo nonno decise di raggiungere suo fratello su a Torino. La FIAT assumeva a ritmi senza precedenti e non importava se lui non era giovanissimo e sapeva solo fare il contadino. Il lavoro in catena s’imparava velocemente, era faticoso ma semplice. Io e la nonna, mia madre, restammo soli: dovevo terminare l’anno scolastico. A tredici anni l’infanzia comincia ad abbandonarci, i contorni del sogno cominciano a perdere sfumature e s’inquadrano lentamente nelle linee marcate della realtà. Ricordo che i miei compagni di classe fra uno scherzo ed un gioco mi facevano comprendere che li avrei persi che loro sarebbero rimasti li e l’anno prossimo avrebbero ancora riso insieme durante le lezioni di francese dell’avvocato “baffi di cartone” e che io non sarei più stato più li ad ascoltare Don Camillo, il prete insegnante di lettere, mentre leggeva poesie con l’accento ostunese o ci raccontava del suo asinello che s’impuntava come un mulo quando lui cercava un’andatura più svelta. Non sarei più stato li a disegnare e colorare sotto la guida del maestro Quaranta pittore e grafico di provincia o a saltare e correre insieme al prof. di ginnastica di cui non ricordo il nome e che ci raccontava di quando, pochi anni prima, aveva visto di persona Berruti ed i suoi occhiali vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma. Soprattutto non sarei stato più li a divertirmi insieme a loro, si, perché andare in quella scuola non era faticoso, quegli insegnanti che avrei scoperto umani ma dilettanti non ci spaventavano per la mole di lavoro che ci assegnavano. Quella scuola era leggera e leggero era il bagaglio culturale che ci trasmetteva. Venne l’estate, la scuola finì, salutai i miei compagni con mille promesse di ritorno e una piccola stretta al cuore, li avrei rivisti? Avrei più provato quella leggera sensazione di stordimento mentre passavo vicino ad Anna, la compagna del secondo banco? Mi distrasse la campagna. Aiutavo la mamma a terminare i lavori di conduzione di un terreno che avevamo in affitto. Il trullo della mia infanzia m’accoglieva per le mie ultime settimane pugliesi. A luglio di quell’anno il primo uomo toccò il suolo lunare in diretta TV, alla fine di agosto partimmo, io e i miei genitori, Torino ci aspettava. Papà mi disse sul treno che aveva affittato un alloggetto in Borgo San Paolo: “Vedrai ti piacerà, è piccolino ma è più grande della casa al paese, d’inverno avremo, i termosifoni, non il braciere o la stufetta elettrica puzzolente che dimenticherai”. Allora l’anno scolastico iniziava il primo ottobre, ebbi quindi tutto il mese di settembre per abituarmi al tutto nuovo e sconosciuto che mi circondava. Il primo giorno a scuola, nonostante i timori, fu una festa, i nuovi compagni accolsero fra loro un altro ragazzo del sud, erano già abituati, in quegli anni, ne arrivava più d’uno all’inizio di ogni stagione. M’accorsi presto che avevo a che fare con una scuola tutto sommato diversa, più severa, più dura. Faticai molto per mettermi al passo con gli altri ma riuscii nell’intento. Non posso però dire di aver personalmente sofferto la discriminazione che, allora, colpiva il diverso, “il napuli”, “il terrone”,  tranne qualche caso superficiale, di semplice livello verbale, senza particolari conseguenze pratiche. Ricordo che i miei compagni di scuola piemontesi m’hanno fatto sentire sempre a mio agio, semmai qualche negatività è legata a compagni di origine meridionale: in fondo quando si lotta sono i più vicini a farne le spese. Mio padre lavorava duramente per mandare avanti la famiglia, oltre a me c’era mia madre che faceva la casalinga, pur non essendo una famiglia numerosa, i salari degli operai non erano certo oro e lui dopo la fabbrica doveva fare “le ore” in qualche “boita”. In quel periodo Torino fu al centro del cosiddetto “autunno caldo” al termine del quale fu ottenuto “Lo statuto dei Lavoratori” il cui art. 18 è stato recentemente al centro dell’attenzione nazionale. Finito positivamente il primo anno di scuola a Torino mi attendevano gli anni delle superiori del post-sessantotto confusi e lassisti. Quelli furono anche gli anni detti “di piombo”.

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